Concetto di "commestibilità" in Micologia e le sue ambiguità

di Francesco Bellù - Annali di Micologia A.G.M.T. n°8 / 2015

L’Autore esprime considerazioni generali e filosofiche sull’ambiguità della definizione di “commestibilità” nei funghi e le sue inevitabili conseguenze sugli usi e costumi delle popolazioni, sulla cultura micologica generale, sulla frequenza delle intossicazioni ed esprime consigli ai Gruppi micologici per evitare certi aspetti negativi derivanti da questi problemi.

INTRODUZIONE:
È questo un argomento molto importante, molto scottante e che, di regola, viene purtroppo evitato, clamorosamente evitato, nelle discussioni all’interno dei Gruppi micologici: sembra che qualcuno abbia paura di parlarne, perché toccare il “commestibile” e come un tabù, un totem, con cui tutti noi, parliamoci chiaro, dobbiamo confrontarsi. E malgrado la nostra più recente dedizione alla Scienza micologica, è un fatto che, quasi tutti noi, il sottoscritto compreso, abbiamo cominciato a fare Micologia, molti anni addietro, perché volevamo conoscere i funghi “che si mangiano”! Premesso questo, bisogna allora comprendere che proprio questo nostro approccio, per certi versi “sbagliato” alla Micologia, è causa di preconcetti, situazioni e posizioni assurde, talora quasi ridicole, nei confronti del totem “commestibili”. A ben vedere, chi vuol fare della buona Scienza micologica. deve avere la mente libera totalmente da preconcetti e saper valutare razionalmente e imparzialmente i dati che oggettivamente ha a disposizione: ma spesso la presenza del tabù ‘commestibile’, arriva ad ottenebrare le menti, rendendole schiave e non libere! Invece lo scienziato è, e deve essere, una persona “libera da preconcetti”. Cerco ora di spiegare tutto questo.

COME VIENE INTESA LA COMMESTIBILITA':
Ecco, cosa significa "commestibile"? Significa letteralmente "cosa che si mangia", con i sinonimi "edule" e "mangereccio", derivato dal latino comedere: tutto lineare, ovviamente e apparentemente, ma non è cosi. Perché questo? Perché i "sensi' , che si possono dare al 'commestibile" sono sicuramente molteplici ed io, qui di seguito, ne individuo almeno due, ma forse ve ne possono essere altri ancora:
Senso numero 1: io mangio questo fungo, che conosco, perché vado a soddisfare una sensorialità gustativa mia, a cui sono abituato, fin da piccolo o da giovane, nel senso che esso fa parte del bagaglio culturale mio, della mia famiglia, del mio villaggio, della popolazione a cui appartengo, ecc., indipendentemente dal fatto che "altre" genti, "altre" popolazioni, "altre" persone non lo considerino affatto come lo considero io.
Senso numero 2: io mangio questo fungo, che conosco, perché sono più o meno sicuro e ritengo sia "accertato", che esso non faccia male. Presuppongo, cioè, che vi siano stati degli accertamenti oggettivamente solidi sulla innocuità del fungo in questione.

Come da logica, si potrebbe aggiungere alle suddette affermazioni i loro, per cosi dire, "negativi", cioè le stesse affèrmazioni all'incontrario, molto ovvie certamente, ma preferiamo esplicitarle per esteso:

Senso numero 1 "negativo": io non mangio questo fungo, che non conosco bene, perché esso non soddisfa una mia sensorialità gustativa, a cui io non sono mai stato abituato ed esso non fa parte del mio bagaglio culturale, né della mia famiglia, del mio villaggio, della popolazione a cui appartengo, ecc.. , indipendentemente dal fatto che "altre" genti "altre" popolazioni, "altre" persone lo considerino diversamente da come io lo considero.
Senso numero 2 "negativo": io non mangio questo fúngo, che conosco, perché sono più o meno sicuro e ritengo sia "accertato", che esso faccia male. Presuppongo cioè che vi siano stati degli accettamenti oggettivamente solidi sulla maggiore o minore velenosità del fungo in questione.

E' evidente che i sensi, di cui al numero l, positivi o negativi che siano, si adattano meglio ad una definizione "culturale" della commestibilità, mentre i sensi, di cui al numero 2, positivi o negativi che siano, meglio si adattano ad una definizione micotossicologica della commestibilità e perciò più vicini ad un concetto scientifico o, se vogliamo, scientificosanitario della stessa.
In realtà ambedue questi sensi sono carichi di notevolissima ambiguità, incertezza, e presuppongono amplissime aree di conoscenze oggettivamente mancanti.
Esaminiamo questa ambiguità in modo dettagliato qui di seguito.

AMBIGUITÀ DEL SENSO NUMERO 1
Questo senso del concetto di commestibile è palesemente di tipo "culturale": cioè il fatto di mangiare e non mangiare un fungo dipende dalle abitudini culturali dei vari soggetti, sia a livello familiare, che di comunità, di valle, regione, paese, etnia, ecc..., e quindi proprio questa autolimitazione del "commestibile" ad un ambito culturale, ne è il più evidente punto debole.
In un'epoca di globalizzazione in cui le mescolanze culturali, anche di tipo alimentare e gastronomico, risultano palesi a tutti, diventa molto difficile e sicuramente abnorme sostenere che un fungo sia "commestibile" per gli uni e non per gli altri: eppure è incredibilmente la realtà di quello che si può leggere in molte pubblicazioni micologiche, e lo si può vedere in molte mostre micologiche, manifestazioni, ecc...; la disomogeneità della concezione "culturale" della commestibilità è molto evidente, non solo fra popolazioni divise da continenti, grandi distanze, ecc..., ma anche dentro un continente come l'Europa, fra vari paesi dell 'Europa, persino all 'interno di un singolo paese. ln Italia, ad esempio, vi sono certamente delle palesi disomogeneità nella concezione "culturale' della commestibilità, e questo, si badi bene, anche indipendentemente dalla distribuzione nel territorio dei funghi stessi; cioè a dire che funghi egualmente distribuiti nel territorio, ricevono considerazioni "culturali" diverse, da regione a regione. Valga per tutti l'esempio della ben nota "Calocibe di maggio" (Calocyhe gambosa): la considerazione "culturale" che essa riceve in regioni diverse del territorio italiano è molto evidente, anche se essa è fortemente distribuita in modo quasi ubiquitario. Similmente l'uso dei funghi lattarioidi (generi Lactarius e Lactiftuus) ha delle profonde diversità in Europa; fra i paesi dell'Est e del Nord Europa, quelli del Centro Europa, l'Italia e la Penisola Iberica, vi sono veramente differenze abissali nell'uso gastronomico di tali funghi. Queste differenze, che sono solo di tipo "culturale", portano addirittura a definizioni di commestibilità abnormemente diverse, a proposito delle stesse specie fungine, egualmente distribuite in molte parti del continente. Quello che è "commestibile" per gli uni, diventa sovente "non commestibile", se non francamente "velenoso" per gli altri, e viceversa (si veda più sotto al capoverso dove si tratta il "non commestibile") Valga per tutti l'esempio dei Lactarius del gruppo scrohiculatus, ben noti commestibili nei paesi dell'Est, talora definiti anche "velenosi" nelle nostre mostre micologiche. Ritengo del tutto improprio che, da parte di alcuni micologi, gli appellativi di "non commestibile" o di "velenoso" vengano affibbiati a certi funghi, solamente perché non fanno parte della nostra tradizione culturale, e senza oggettive prove scientifiche. Il caso poi del "Lattario di betulla" (Lactarius torminosus) è ancor più clamoroso ed eclatante, anche perché, ad esso, da molto tempo, esattamente dal 1774 (ad opera del micologo J.C. Schaeffer) è stato applicato un nome tassonomico, verosimilmente del tutto incongruo, che significa in pratica "che provoca coliche addominali". Già alla fine del '700 e in tutto 1'800 tale appellativo tassonomico ricevette infatti notevoli critiche e smentite. Si tratta verosimilmente dell'ennesimo esempio di un nome tassonomico, perfettamente corretto dal punto di vista nomenclaturiale, ma infelice e mal affibbiato, nel senso logico che esso vuol esprimere. Vi sono diversi esempi di questo in Micologia: Gyromitra esculenta, Russula nauseosa, Lactarius necator, ecc..; per la cronaca, il "Lattario di betulla' (Lactarius torminosus) è da molto tempo in uso alimentare nel Nord- ed Est-Europa, come da mia personale e lunga esperienza.
AMBIGUITÀ DEL SENSO NUMERO 2
Questo senso, questa interpretazione del "commestibile" è palesemente più di tipo sanitario-scientifico, cioè vuole preoccuparsi a priori di eventuali effetti nulli o viceversa assai spiacevoli, derivati dal consumo alimentare dei funghi.
E' questa senz'altro l'interpretazione del "commestibile" più in voga, presso un certo tipo di pubblico, che prova ad imparare qualcosa su pubblicazioni micologiche varie, mostre micologiche, contatti con micologi più esperti, ispettori sanitari micologi, ecc...; essi di regola credono fermamente nel "commestibile", o viceversa nel "velenoso" come una forma di "dogma" insuperabile, "perché l'ho letto su quel certo libro", "me l'ha detto quel famoso micologo' 'me I 'ha detto quello che controlla i funghi", e via dicendo.
Pochi, molto pochi, purtroppo, conoscono invece la oggettiva realtà delle cose, questa si, realtà scientifica: i funghi veramente studiati, dal punto di vista scientifico, sperimentale e tossicologico, si contano sulla punta delle dita delle mani!! Magari aggiungiamoci anche... le dita dei piedi, ma non si va oltre!
Ora, se noi pensiamo che notoriamente (questo sì è accertato), le nostre micoflore regionali contano sicuramente diverse migliaia di specie fungine, è palese allora che della stragrande maggioranza dei funghi, non si sa proprio nulla, nel senso di "conoscenza scientifica accertata", con metodo sperimentale! Ed è di regola molto difficile far digerire questa notizia a chi crede nel commestibile e nel velenoso in quella forma "dogmatica", a cui accennavo sopra. Essi normalmente non si rendono conto che le accezioni di commestibile e velenoso, presentate su libri divulgativi, mostre, ecc.. , si riferiscono a conoscenze per lo più "empiriche", talora anche solo "sentiti dire", tutte cose ben distanti dalle verità scientifiche accertate, che in micotossicologia sono purtroppo assai poche. I fondamenti della farmacologia e della tossicologia, che ne è in fondo solo un corollario, sono due, sempre misconosciuti dal grosso pubblico e regolarmente "dimenticati" da chi fa pubblicazioni divulgative: la "dose" e la "sostanza". Ora, senza identificazione della "sostanza" farmacologicamente attiva e delle sue "dosi" necessarie a scatenare certi effetti, non si combina nulla in micossicologia: bene, nella stragrande maggioranza dei casi, in campo micotossicologico, non si conoscono né le "sostanze", né le loro "dosi"! E questo l'ignaro pubblico che segue le definizioni "dogmatiche", di commestibile e velenoso, di cui sopra, non lo sa o, per lo più, finge di non saperlo! Allora è palese che il tentativo di definire "sanitariamente", il senso nr. 2 di "commestibile", incorre in difficoltà ancora superiori a quelle che abbiamo esaminato per il senso nr. 1 .

CONCLUSIONI
Tutto ciò è disastroso!
Una definizione di "commestibilità" basata su oggettivi criteri scientifico-analitici non è mai o quasi mai disponibile, neppure per i miceti superiori di più comune uso popolare; forse a questa regola fanno eccezione alcuni funghi coltivati e regolarmente venduti nei mercati, i quali, ci risulta, certe analisi hanno pur subito, o dovuto subire, se non altro per motivi merceologici (ma non per motivi strettamente sanitaritossicologici!).
Inoltre, appare altrettanto chiaro che una definizione di "commestibilità", di tipo invece "culturale" (vedi sopra al senso nr. 1) risulta parimenti ambigua, per le sue forti delimitazioni di tipo etnico-micologico ed è anch ' essa comunque del tutto "empirica' nel senso che appare solamente basata sull'esperienza culturale di una certa popolazione.
Vorrei a tal proposito ricordare il numero notevole di miceti che, in un recente passato, da una considerazione "empirica" di commestibilità, sono passati a definizioni e precisazioni scientifico-sanitarie sicuramente peggiorative e relazionate anche ad una loro notevole pericolosità: genere Gyromitra, Pleurocvbella porrigens, Parillus involutus, Tricholoma equestre, genere Morchella, e via dicendo.
Qualcuno osserverà: ma allora cosa imparano e cosa controllano gli Ispettori Micologi, addetti al controllo dei funghi? Essi imparano dei concetti molto "convenzionali" di commestibilità, nelle Scuole da cui escono, concetti sicuramente anche piuttosto ambigui e talora anche superati dall 'avanzamento delle conoscenze, come sopra dimostrato, e che abbisognano sempre di frequenti e periodici Corsi di aggiornamento. In linea di massima il pubblico può ben fidarsi di loro, ma, sia chiaro, neppure loro sono esenti dalla ambigua definizione di commestibilità, di cui sopra.
Altra inevita conclusione è che la stragrande maggioranza dei testi divulgativi di uso corrente fallisce lo scopo, proprio perché non prende assolutamente in considerazione i concetti di cui sopra, riferendo notizie relative a quella commestibilità "ambigua", nei sensi 1 e 2, a cui sopra mi riferivo e, frequentemente, a quella delimitazione "culturale" che è caratteristica di molte popolazioni della penisola italiana.
Naturalmente esistono delle eccezioni fra le pubblicazioni divulgative e, scusate se parlo di un testo da poco dato alle stampe, alla cui stesura io ho attivamente partecipato: "Per non confondere i funghi - Um die Pilze nicht zu verwechseln" di G. Veroi e il sottoscritto (Ed. Panorama), testo fra l'altro bilingue, italiano-tedesco. Esso è un libro che cambia totalmente il modo di presentare la commestibilità dei funghi, seguendo per I 'appunto i concetti sopraesposti; non vuole essere depositario di verità assolute, fra l'altro del tutto in fieri, giorno dopo giorno, ma almeno vi è in esso l'assoluta rinuncia a certi miseri preconcetti, che riempiono squallidamente tutti i nostri testi divulgativi e che hanno avuto finora l'unico effetto di far aumentare le intossicazioni fungine in Italia, Noi, a differenza di altri, ci siamo aggiornati ed abbiamo raccolto pareri in tutta Europa e oltre, sui funghi che abbiamo presentato, anche se pure le nostre considerazioni sopportano il peso di quella mancanza di scientificità, che tutte le definizioni di commestibilità portano inevitabilmente con sé.
La dimostrazione più lampante poi che la commestibilità fungina è una definizione molto ambigua è data dal fatto che, come da dati sanitari statistici, in Italia i ricoveri ospedalieri per intossicazioni fungine vedono al primo posto, fra i miceti responsabili, gli appartenenti al genere Armillaria e, al secondo, gli appartenenti al gruppo del Boletus edulis! Tutto ciò la dice lunga sulla attendibilità dei nostri "commestibili" e di quanto ci sia ancora da sapere sui funghi: altro che noti,...direi ignoti!
Un discorso a parte necessiterebbe poi I 'uso del diffuso termine "non commestibile", talora usato in modo incongruo e altrettanto ambiguo del "commestibile", semplicemente per nascondere al pubblico (si fa per dire) una condizione, invero molto comune, di ignoranza da parte del Micologo o della Micologia stessa, su una certa specie fungina. E del tutto inverosimile che tale "ignoranza" non porti, come da logica, all'appellativo ''ignote" che dovrebbe essere quindi, a mio avviso molto più in uso, di quanto non compaia nei testi divulgativi, mostre, audiovisivi, pubblicazioni on-line, manifestazioni micologiche, ecc.; è curioso come vi sia, da parte di molti ambienti micologici una sorta di ritrosia nel rendere manifesta l'oggettiva ignoranza sulla commestibilità di una certa specie fungina; ed allora si usa il termine "non commestibile" in sostituzione di "ignoto", come sarebbe da logica! Fra l'altro un numero notevole di funghi, definiti "non commestibili' in Italia, sono assolutamente "commestibili" ln altre parti d'Europa e del mondo; ricordo a tal proposito un numero molto grande di appartenenti ai generi Lactarius, Lactifluus e Russula (e vedasi le mie considerazioni più sopra a proposito del senso nr. 1). Questa ritrosia a manifestare la propria ignoranza deriva, a mio avviso, dal senso di "potere" che ancora adesso alligna in certi ambienti micologici: il micologo cioè ha il "potere" (invero ben misero) di far mangiare o no un certo fungo alla gente e a questo "potere" lui non vuole mai rinunciare! Allora ecco che, davanti ad una situazione di oggettiva ignoranza sulle caratteristiche di commestibilità di una certa specie, il micologo si protegge, si fa per dire, dietro il termine "non commestibile", Il termine di ' 'ignoto" comporterebbe invece una sorta di perdita di immagine del micologo e quindi del suo "potere"; per questo non lo si usa, ma è profondamente sbagliato, perché anche e soprattutto il pubblico deve rendersi conto di quanto siano "ignoti" i funghi! Non solo, ma il termine "ignoto" possiede un importantissimo deterrente negativo nei confronti del pubblico, perché è palese che nessun inesperto farà mai "l 'esperimento" di provare a mangiare quello che il micologo ha definito "ignoto"! Invece, viceversa, quello che è definito "non commestibile" introduce nel pubblico una sorta di considerazioni, per cosi dire personali e perciò ambigue, poiché qualcuno penserà che ciò che non è commestibile per gli uni, può diventare commestibile per altri, ed infatti in Italia si sprecano i cartellini di "non commestibile" nelle mostre micologiche, per il "Lattifluo albo-vellutato", Lactifluus vellereus, mentre invece, come volevasi dimostrare, ..i calabresi lo mangiano regolarmente senza problemi! A mio avviso il termine di "non commestibile" dovrebbe unicamente essere utilizzato, nel senso letterale del termine, cioè di "non mangiabile, non introducibile": cioè al caso di un fungo di consistenza legnosa, oppure con odori o sapori letteralmente rivoltanti, ecc... E che dire dei Gruppi Micologici? Molti sono anche molto attivi e positivi, ma tutti, a mio parere falliscono miseramente davanti a questo problema, perché non sono capaci di tirare logiche deduzioni da quanto esposto più sopra, Il mio consiglio, dovuto alla nostra lunghissima esperienza a Bolzano è questo: redigere, per ogni Gruppo, una lista predefinita di funghi (o di gruppi di funghi, in senso lato) da esporre ufficialmente come commestibili; tale lista non dovrebbe superare le 30-40 unità al massimo (inteso ad esempio, che i boleti del gruppo edulis fanno un gruppo, i Lactarius del gruppo deliciosus, ne fanno un altro e cosi via). Logicamente tale lista deve essere redatta dagli esperti del Gruppo stesso, tenendo in considerazione i funghi presenti nell'areale di riferimento, gli usi locali tradizionali, ecc... : ad esempio, difficilmente Pleurotus eryngii, noto commestibile, farà parte della lista del Gruppo micologico di Bolzano, perché non è mai stato trovato in questa provincia, e viceversa difficilmente Gomphus clavatus, pur noto commestibile, farà parte di una lista di un Gruppo micologico siciliano, perché non esiste in questa regione. Tale lista dovrebbe poi anche, ogni due-tre anni, essere aggiornata, con le inevitabili novità sull'argomento. Solo i funghi di suddetta lista potranno poi ricevere il termine di "commestibile", in mostre, piccole pubblicazioni, manifestazioni varie del Gruppo stesso, e questo comporterà che saranno definiti meglio e più evidenziati i funghi velenosi o sospetti tali e lasciati tutti gli altri senza precise definizioni, oppure con definizioni di "ignoto", ecc...; ne guadagnerà molto l'apprendimento dei principianti, che potranno concentrare la loro attenzione solo sui 30-40 "commestibili" esposti e il micologo non dovrà perder tempo a dare definizioni assurde (e ambigue) di commestibilità o meno in gruppi di funghi, come cortinari o clitocibi, di cui ancora la Scienza stessa non ha precise conclusioni tassonomiche, né tanto meno chimico-tossicologiche. Inoltre l'aspetto generale delle Mostre micologiche sarà diverso nei confronti del pubblico: non più centinaia di specie definite incongruamente "commestibili", ma un numero più limitato dl definizioni di "commestibile" (più semplici da apprendere), maggior evidenza ai velenosi e soprattutto l'assenza della folla di "commestibili" (ambigui), che danno purtroppo a molti del pubblico, l'impressione diffusa che "in fondo si può mangiare di tutto. basta conoscere ed evitare quei 4 0 5 di velenosi": con quali conseguenze noi ben lo sappiamo!

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