L’Autore esprime considerazioni generali e filosofiche sull’ambiguità della definizione di “commestibilità” nei funghi e le sue inevitabili conseguenze sugli usi e costumi delle popolazioni, sulla cultura micologica generale, sulla frequenza delle intossicazioni ed esprime consigli ai Gruppi micologici per evitare certi aspetti negativi derivanti da questi problemi.
INTRODUZIONE:
È questo un argomento molto importante, molto scottante e che, di regola,
viene purtroppo evitato, clamorosamente evitato, nelle discussioni all’interno
dei Gruppi micologici: sembra che qualcuno abbia paura di parlarne, perché toccare
il “commestibile” e come un tabù, un totem, con cui tutti noi, parliamoci chiaro,
dobbiamo confrontarsi. E malgrado la nostra più recente dedizione alla Scienza micologica,
è un fatto che, quasi tutti noi, il sottoscritto compreso, abbiamo cominciato a fare Micologia,
molti anni addietro, perché volevamo conoscere i funghi “che si mangiano”! Premesso questo,
bisogna allora comprendere che proprio questo nostro approccio, per certi versi “sbagliato”
alla Micologia, è causa di preconcetti, situazioni e posizioni assurde, talora quasi ridicole,
nei confronti del totem “commestibili”. A ben vedere, chi vuol fare della buona Scienza
micologica. deve avere la mente libera totalmente da preconcetti e saper valutare
razionalmente e imparzialmente i dati che oggettivamente ha a disposizione: ma spesso
la presenza del tabù ‘commestibile’, arriva ad ottenebrare le menti, rendendole schiave e
non libere! Invece lo scienziato è, e deve essere, una persona “libera da preconcetti”.
Cerco ora di spiegare tutto questo.
COME VIENE INTESA LA COMMESTIBILITA':
Ecco, cosa significa "commestibile"? Significa letteralmente "cosa che si mangia", con i sinonimi "edule" e "mangereccio", derivato dal latino comedere: tutto lineare, ovviamente e apparentemente, ma non è cosi. Perché questo? Perché i "sensi' , che si possono dare al 'commestibile" sono sicuramente molteplici ed io, qui di seguito, ne individuo almeno due, ma forse ve ne possono essere altri ancora:
Senso numero 1: io mangio questo fungo, che conosco, perché vado a soddisfare una sensorialità gustativa mia, a cui sono abituato, fin da piccolo o da giovane, nel senso che esso fa parte del bagaglio culturale mio, della mia famiglia, del mio villaggio, della popolazione a cui appartengo, ecc., indipendentemente dal fatto che "altre" genti, "altre" popolazioni, "altre" persone non lo considerino affatto come lo considero io.
Senso numero 2: io mangio questo fungo, che conosco, perché sono più o meno sicuro e ritengo sia "accertato", che esso non faccia male. Presuppongo, cioè, che vi siano stati degli accertamenti oggettivamente solidi sulla innocuità del fungo in questione.
Come da logica, si potrebbe aggiungere alle suddette affermazioni i loro, per cosi dire, "negativi", cioè le stesse affèrmazioni all'incontrario, molto ovvie certamente, ma preferiamo esplicitarle per esteso:
Senso numero 1 "negativo": io non mangio questo fungo, che non conosco bene, perché esso non soddisfa una mia sensorialità gustativa, a cui io non sono mai stato abituato ed esso non fa parte del mio bagaglio culturale, né della mia famiglia, del mio villaggio, della popolazione a cui appartengo, ecc.. , indipendentemente dal fatto che "altre" genti "altre" popolazioni, "altre" persone lo considerino diversamente da come io lo considero.
Senso numero 2 "negativo": io non mangio questo fúngo, che conosco, perché sono più o meno sicuro e ritengo sia "accertato", che esso faccia male. Presuppongo cioè che vi siano stati degli accettamenti oggettivamente solidi sulla maggiore o minore velenosità del fungo in questione.
E' evidente che i sensi, di cui al numero l, positivi o negativi che siano, si adattano meglio ad una definizione "culturale" della commestibilità, mentre i sensi, di cui al numero 2, positivi o negativi che siano, meglio si adattano ad una definizione micotossicologica della commestibilità e perciò più vicini ad un concetto scientifico o, se vogliamo, scientificosanitario della stessa.
In realtà ambedue questi sensi sono carichi di notevolissima ambiguità, incertezza, e presuppongono amplissime aree di conoscenze oggettivamente mancanti.
Esaminiamo questa ambiguità in modo dettagliato qui di seguito.
AMBIGUITÀ DEL SENSO NUMERO 1
Questo senso del concetto di commestibile è palesemente di tipo "culturale": cioè il fatto di
mangiare e non mangiare un fungo dipende dalle abitudini culturali dei vari soggetti,
sia a livello familiare, che di comunità,
di valle, regione, paese, etnia, ecc..., e quindi proprio questa autolimitazione del "commestibile"
ad un ambito culturale, ne è il più evidente punto debole.
In un'epoca di globalizzazione in cui le mescolanze culturali, anche di tipo alimentare e
gastronomico, risultano palesi a tutti, diventa molto difficile e sicuramente abnorme sostenere
che un fungo sia "commestibile" per gli uni e non per gli altri: eppure è incredibilmente la
realtà di quello che si può leggere in molte pubblicazioni micologiche, e lo si può vedere in
molte mostre micologiche, manifestazioni, ecc...; la disomogeneità della concezione "culturale"
della commestibilità è molto evidente, non solo fra popolazioni divise da continenti, grandi
distanze, ecc..., ma anche dentro un continente come l'Europa, fra vari paesi dell 'Europa,
persino all 'interno di un singolo paese. ln Italia, ad esempio, vi sono certamente delle palesi
disomogeneità nella concezione "culturale' della commestibilità, e questo, si badi bene, anche
indipendentemente dalla distribuzione nel territorio dei funghi stessi; cioè a dire che funghi
egualmente distribuiti nel territorio, ricevono considerazioni "culturali" diverse, da regione
a regione. Valga per tutti l'esempio della ben nota "Calocibe di maggio" (Calocyhe gambosa):
la considerazione "culturale" che essa riceve in regioni diverse del territorio italiano è molto
evidente, anche se essa è fortemente distribuita in modo quasi ubiquitario.
Similmente l'uso dei funghi lattarioidi (generi Lactarius e Lactiftuus) ha delle profonde
diversità in Europa; fra i paesi dell'Est e del Nord Europa, quelli del Centro Europa,
l'Italia e la Penisola Iberica, vi sono veramente differenze abissali nell'uso gastronomico
di tali funghi. Queste differenze, che sono solo di tipo "culturale", portano addirittura a
definizioni di commestibilità abnormemente diverse, a proposito delle stesse specie fungine,
egualmente distribuite in molte parti del continente. Quello che è "commestibile" per gli uni,
diventa sovente "non commestibile", se non francamente "velenoso" per gli altri, e viceversa
(si veda più sotto al capoverso dove si tratta il "non commestibile") Valga per tutti l'esempio
dei Lactarius del gruppo scrohiculatus, ben noti commestibili nei paesi dell'Est, talora
definiti anche "velenosi" nelle nostre mostre micologiche. Ritengo del tutto improprio che,
da parte di alcuni micologi, gli appellativi di "non commestibile" o di "velenoso" vengano
affibbiati a certi funghi, solamente perché non fanno parte della nostra tradizione culturale,
e senza oggettive prove scientifiche. Il caso poi del "Lattario di betulla"
(Lactarius torminosus) è ancor più clamoroso ed eclatante, anche perché, ad esso,
da molto tempo, esattamente dal 1774 (ad opera del micologo J.C. Schaeffer) è stato
applicato un nome tassonomico, verosimilmente del tutto incongruo, che significa in pratica
"che provoca coliche addominali". Già alla fine del '700 e in tutto 1'800 tale appellativo
tassonomico ricevette infatti notevoli critiche e smentite. Si tratta verosimilmente
dell'ennesimo esempio di un nome tassonomico, perfettamente corretto dal punto di vista
nomenclaturiale, ma infelice e mal affibbiato, nel senso logico che esso vuol esprimere.
Vi sono diversi esempi di questo in Micologia: Gyromitra esculenta, Russula nauseosa,
Lactarius necator, ecc..; per la cronaca, il "Lattario di betulla' (Lactarius torminosus)
è da molto tempo in uso alimentare nel Nord- ed Est-Europa, come da mia personale e lunga
esperienza.
AMBIGUITÀ DEL SENSO NUMERO 2
Questo senso, questa interpretazione del "commestibile" è palesemente più di tipo
sanitario-scientifico, cioè vuole preoccuparsi a priori di eventuali effetti nulli o
viceversa assai spiacevoli, derivati dal consumo alimentare dei funghi.
E' questa senz'altro
l'interpretazione del "commestibile" più in voga, presso un certo tipo di pubblico, che prova
ad imparare qualcosa su pubblicazioni micologiche varie, mostre micologiche, contatti con
micologi più esperti, ispettori sanitari micologi, ecc...; essi di regola credono fermamente
nel "commestibile", o viceversa nel "velenoso" come una forma di "dogma" insuperabile,
"perché l'ho letto su quel certo libro", "me l'ha detto quel famoso micologo'
'me I 'ha detto quello che controlla i funghi", e via dicendo.
Pochi, molto pochi,
purtroppo, conoscono invece la oggettiva realtà delle cose, questa si, realtà scientifica:
i funghi veramente studiati, dal punto di vista scientifico, sperimentale e tossicologico,
si contano sulla punta delle dita delle mani!! Magari aggiungiamoci anche... le dita dei
piedi, ma non si va oltre!
Ora, se noi pensiamo che notoriamente (questo sì è accertato),
le nostre micoflore regionali contano sicuramente diverse migliaia di specie fungine, è
palese allora che della stragrande maggioranza dei funghi, non si sa proprio nulla,
nel senso di "conoscenza scientifica accertata", con metodo sperimentale! Ed è di
regola molto difficile far digerire questa notizia a chi crede nel commestibile e
nel velenoso in quella forma "dogmatica", a cui accennavo sopra. Essi normalmente
non si rendono conto che le accezioni di commestibile e velenoso, presentate su
libri divulgativi, mostre, ecc.. , si riferiscono a conoscenze per lo più "empiriche",
talora anche solo "sentiti dire", tutte cose ben distanti dalle verità scientifiche
accertate, che in micotossicologia sono purtroppo assai poche. I fondamenti della
farmacologia e della tossicologia, che ne è in fondo solo un corollario, sono due,
sempre misconosciuti dal grosso pubblico e regolarmente "dimenticati" da chi fa
pubblicazioni divulgative: la "dose" e la "sostanza". Ora, senza identificazione
della "sostanza" farmacologicamente attiva e delle sue "dosi" necessarie a scatenare
certi effetti, non si combina nulla in micossicologia: bene, nella stragrande
maggioranza dei casi, in campo micotossicologico, non si conoscono né le "sostanze",
né le loro "dosi"! E questo l'ignaro pubblico che segue le definizioni "dogmatiche",
di commestibile e velenoso, di cui sopra, non lo sa o, per lo più, finge di non saperlo!
Allora è palese che il tentativo di definire "sanitariamente", il senso nr. 2
di "commestibile", incorre in difficoltà ancora superiori a quelle che abbiamo
esaminato per il senso nr. 1 .
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